Della ricerca sviluppata da Roberto Louvin su “La funzione prefettizia del Presidente della Regione Valle d’ Aosta/Vallée d’aoste” vorrei sottolineare due profili di interesse– tra i molti possibili –: innanzitutto, aver puntato i riflettori su un profilo qualificante la specialità della Regione, che evidenzia la diversa qualità della sua autonomia non solo rispetto alle Regioni ordinarie, ma anche alle altre autonomie speciali; in secondo luogo, di aver posto all’attenzione degli studiosi e delle forze politiche e culturali del paese un tema di diritto costituzionale che chiama direttamente in causa le teorie sulla forma di Stato composto. Cioè il rapporto che esiste tra l’amministrazione decentrata dello Stato e il tipo di autonomia riconosciuta ai territori.
Per meglio precisare questi motivi di interesse è, a mio avviso, opportuno inserire lo status della Regione Valle d’Aosta all’interno dei tipi di autonomia presenti in Europa: cioè il federalismo unitario, le autonomie asimmetriche e il regionalismo ordinario.
Il federalismo unitario è stato, insieme all’esperienza svizzera, la prima forma di autonomia dei territori affermatasi in Europa: essa si è contrapposta al federalismo originario, di matrice liberale, espresso dalle rivoluzioni indipendentistiche e anticoloniali che hanno favorito la nascita degli Stati Uniti d’America e successivamente gli assetti federali dell’America latina.
Il c.d. federalismo “originario” avevano concepito l’Unione federale come l’espressione di un patto, di un accordo che si fondava sulla libera unione di territori giuridicamente eguali, accomunati dalla cultura, dagli interessi economici e politici. Il federalismo unitario, invece, è di tipo devolutivo: non a caso, il suo “prototipo” è stato individuato nella tradizione costituzionale prussiana, la quale, contrapponendosi all’accentramento francese, aveva optato per un assetto costituzionale che contemperasse l’unità della Nazione con la salvaguardia delle realtà territoriali che si erano confederate in seguito al Congresso di Vienna. Questa nuova organizzazione costituzionale si perfezionò in Germania con l’approvazione della Costituzione del 1871 e fu successivamente aggiornata dalla Costituzione di Weimar del 1919 e della Legge fondamentale del 1949. Nonchè nella Costituzione austriaca del 1920.
I tratti tipici del federalismo “unitario” sono individuabili nell’omogeneità, nella lealtà federale e nella peculiare struttura del bicameralismo.
In base all’omogeneità i Länder sono sottoposti agli stessi vincoli costituzionali e l’autonomia delle comunità territoriali non è tanto un diritto, quanto una garanzia istituzionale che si deve manifestare “all’interno” della legge. A differenza del federalismo americano la titolarità della sovranità appartiene alla Federazione, mentre i Länder godono di una condizione di autonomia.
A sua volta, il principio di lealtà vincola la Federazione e i Länder a tenere una condotta rispettosa del principio di solidarietà: da ciò l’affermazione di un federalismo di tipo cooperativo; mentre la struttura del bicameralismo consente ai territori di collaborare alla legislazione della Federazione.
Anche in Austria il processo di federalizzazione si è caratterizzato per elementi non secondari di centralismo e per una ponderata distribuzione delle attività “sovrane” secondo criteri devolutivi: tale soluzione è stata condizionata sia da ragioni storiche (come il lascito della Monarchia e la posizione assorbente della Capitale); sia da motivi di tipo culturale riconducibili alle teorie sullo Stato amministrativo che hanno ispirato la Costituzione del 1920.
L’alternativa al federalismo unitario è storicamente rappresentata in Europa dall’affermazione di esperienze di regionalismo devolutivo, omogeneo, il cui primo esempio si rinviene nel Titolo V della Costituzione italiana. A nostro avviso, la scelta compiuta dai costituenti non ha rappresentato lo sbocco naturale di un’aspirazione storica, bensì è stata il frutto del nuovo contesto politico prodotto dalla crisi della Monarchia e dalla guerra; nonché della consapevolezza dei problemi che l’edificazione dell’ordinamento repubblicano poneva.
In sintesi, il testo che uscì dai lavori della Seconda Sottocommissione fu espressione di una mediazione che scartò le due prospettive opposte rappresentate dall’opzione federale e dalla regressione del principio di autonomia politica a quello di decentramento. Muovendosi all’interno di questi due estremi i costituenti accentuarono il ruolo del legislatore nazionale nel definire i caratteri dell’autonomia, come evidenzia la formula dell’art. 5 Cost., ove si utilizza l’espressione “promuove” per evidenziare che il processo di decentramento deriva dall’azione unilaterale del soggetto titolare della sovranità.
Un terzo modo di declinare il principio di autonomia è individuabile nelle esperienze che hanno dato vita a un assetto intermedio tra il federalismo e il regionalismo, fondato sul principio dispositivo, in modo che ogni comunità territoriale potesse godere del livello di autonomia di cui aveva bisogno in base alla sua specificità storica e culturale.
Questa visione dell’autonomia ebbe il suo prototipo nella Costituzione della Seconda Repubblica spagnola del 1931, la quale diede vita a una forma di autonomia regolata dall’alto, ma che consentiva ai territori diverse opzioni, prevedeva una asimmetria sia sotto il profilo delle competenze che delle regole di organizzazione.
Tale impostazione caratterizza oggi la Costituzione del Belgio, la quale è un ibrido tra federalismo e regionalismo, al punto che la stessa Costituzione afferma che il Belgio è uno Stato federale, composto da Regioni e da Comunità territoriali. Essa emerge anche dal modo con cui la Costituzione spagnola ha riconosciuto sia gli hechos diferenciales che qualificano la peculiarità di alcuni territori (Navarra, Canarie, Andalusia, Comunità valenziana, Castilla-León), sia le specificità delle nazionalità storiche presenti nei territori dei Paesi Baschi, della Catalogna e della Galizia.
A nostro avviso, rientra tra le forme di autonomia intermedie tra federalismo e regionalismo anche l’esperienza italiana del regionalismo speciale, il cui principium individuationis deve essere ricercato nell’ “individualità” culturale e storico- politica di alcuni territori. In altri termini, la specialità regionale si è manifestata attraverso la costituzionalizzazione di poteri diversi e più intensi, ma la sua ragione d’essere consisteva nella loro “specificità” storica: nella presenza di tradizioni giuridiche, assetti proprietari risalenti nel tempo, diritti storici e forme organizzative e gestionali tipiche di quelle comunità.
A nostro avviso, tuttavia, all’interno del regionalismo speciale, gli Statuti della Valle d’Aosta e della Sicilia meritano un’attenzione particolare in quanto, essendo stati approvati anteriormente all’approvazione del titolo V della Costituzione, delineano una visione della forma di Stato regionale e una concezione innovativa dei rapporti tra l’autonomia dei territori e l’amministrazione statale, di ispirazione federale; una visione che però regredirà nel corso del dibattito costituente, non trovando un supporto nel testo della Costituzione.
Questa concezione innovativa si evidenzia – come ha trattato diffusamente Louvin – nella scelta di sopprimere la Provincia di Aosta e di affidare al Presidente della Regione l’esercizio delle funzioni prefettizie. Essa è confermata dallo Statuto siciliano, in cui il Presidente della Regione assomma la duplice qualità di capo del Governo regionale e rappresentante nella Regione del Governo dello Stato: tale riconoscimento, inoltre, esce rafforzato dagli articoli successivi dello Statuto che gli affidano il mantenimento dell’ordine pubblico a mezzo della polizia dello Stato e la partecipazione, con voto deliberativo, al Consiglio dei Ministri nelle materie che interessano la Regione.
Queste disposizioni di rango costituzionale debbono essere interpretate in connessione con il dibattito giuridico e politico di quei mesi, dal quale emergeva una tendenza – autorevole anche se non maggioritaria –la quale tendeva a considerare le autonomie regionali un’occasione di riforma della stessa organizzazione decentrata dello Stato.
Per rafforzare questo valutazione vorrei richiamare alcuni giudizi espressi in quel periodo da importanti giuristi e politici.
Costantino Mortati, in un suo intervento in Assemblea costituente del 29 luglio,194 affermò che una vera autonomia suppone “ che si possa fare a meno del controllo esterno, cioè dell’intervento di organi dello Stato centrali….Occorrerebbe ricorrere al controllo interno, nell’ambito degli enti stessi, attraverso l’interessamento dei cittadini alla cosa pubblica, come per esempio un sistema di azioni popolari”.
A sua volta, Oliviero Zuccarini, ripensando al dibattito costituente relativo al titolo V della Costituzione, ha ricordato che “il Prefetto è un organo che ha determinato la scandalosa sorpresa degli osservatori della stampa inglese e americana per i quali la figura del prefetto come figura di primo piano nella vita politica è inconcepibile”, giungendo alla conclusione amara che non è concepibile l’autonomia, una stessa vita locale “ con le prefetture in piedi” .
Infine, Vezio Crisafulli, commentando l’impugnativa da parte del Governo De Gasperi di due leggi della Regione Sicilia finalizzate a dare attuazione allo Statuto Siciliano, fornisce un’ interpretazione importante del “silenzio” della Costituzione a proposito della posizione dei Prefetti – una valutazione di segno diverso da quella che prevalse di fatto nei primi anni di vita repubblicana-. A suo avviso, l’esame dei lavori preparatori della Costituzione evidenzierebbe come la mancata costituzionalizzazione dell’istituto prefettizio fosse strumentale all’intenzione di attuare con legge ordinaria una riforma dell’amministrazione locale, che superasse questo “tipico residuo storico di ordinamenti rigorosamente accentrati su basi burocratiche”.
Tale volontà costituente emergerebbe anche dalla nuova disciplina costituzionale dei controlli di legittimità sugli atti amministrativi comunali e provinciali: che ha trasferito tale competenza dal Prefetto a nuovi organi regionali.
A mio avviso, non significa forzare il dibattito in Assemblea costituente se si ritiene che le scelte compiute dagli Statuti della Valle d’Aosta e della Sicilia non riguardava solo la specificità di quei territori, ma riguardava anche una prospettiva di organizzazione della Repubblica che non riuscì a prevalere nel mutato contesto politico del 1947.
A conferma di questa valutazione si possono richiamare anche alcuni interventi nel dibattito relativo all’art.130 Cost. i quali avevano sottolineato come la figura del Prefetto non fosse compatibile con la costituzionalizzazione del Commissario del Governo: il Prefetto, infatti, indicava una prospettiva gerarchica nelle relazioni interistituzionali, mentre la regionalizzazione doveva implicare un rapporto relazionale tra lo Stato e i territori.
Tuttavia, lo spirito pattizio che ha contrassegnato i lavori i costituenti spinse a non prendere in Assemblea costituente una decisione esplicita a proposito di questo tema divisivo, demandando la soluzione del problema a un altra fase della vita istituzionale. In altri termini, il “silenzio” o la “non scelta” dell’Assemblea costituente in materia ha facilitato la continuità dell’istituto prefettizio.
Esso, anzi, è riuscito a riprendere il suo percorso istituzionale, trovando addirittura una rivalutazione/rivitalizzazione.
Con il decreto legislativo n. 300 del 1999 il Prefetto della Provincia capoluogo della Regione incrementò le proprie competenze assorbendo quelle del Commissario di Governo; mentre con il Decreto presidenziale n. 287 del 2001 ha acquisito una competenza di tipo residuale.
E’, a mio avviso, interessante mettere a confronto la traiettoria seguita dall’istituto prefettizio italiano con quella del Governatore civile spagnolo.
Le Cortes contituyentes spagnole, nell’affrontare il tema della rappresentanza dello Stato all’interno delle Comunità autonome, si erano ispirate chiaramente alla soluzione italiana dell’art. art.130 Cost. L’art. 154 della Costituzione spagnola ha disposto che “Un Delegato di nomina governativa dirigerà l’Amministrazione statale nel territorio della Comunità Autonoma, coordinandola, ove necessario, con l’amministrazione propria della Comunità.”
La dottrina e le coalizioni politiche successive all’approvazione della Carta costituzionale nutrirono molti dubbi circa una possibile convivenza tra l’organo ereditato dal passato – il Governatore civile – e quello nuovo previsto dalla carta costituzionale, il quale si rifaceva come nomenclatura alle esperienze repubblicane. Di conseguenza, fu avviato un percorse riformatore a tappe finalizzato a superare la figura dei Governatore civile.
Dapprima, il Decreto Reale del 10 ottobre del 1980 introdusse nelle Comunità autonome della Catalogna e dei Paesi Baschi la figura del Gobernator general, che si poneva in una posizione di superiorità gerarchica nei confronti dei Governatori civili, i quali persero la precedente capacità di interlocuzione diretta con il Governo.
Successivamente, un Decreto Reale del 22 dicembre 1980 modificò la funzione dei Governatori civili da organo titolare dell’ indirizzo amministrativo statale sul territorio a semplice soggetto rappresentativo del Governo nella Provincia.
Inoltre, nel 1982, i governatori non vennero più qualificati come i massimi responsabili dell’ordine pubblico nelle Province, ma come i garanti del rispetto dei diritti e delle libertà; con il conseguente obbligo di coordinarsi con gli organi delle Comunità autonome. Infine, la legge n. 6 del 1997 sull’organizzazione e funzionamento dell’amministrazione generale dello Stato (LOFAGE) potenziò la figura del Delegato attribuendogli una funzione di direzione dell’amministrazione territoriale dello Stato (a scapito dei Governatori civili).
In definitiva, se in Spagna, si è cercato di valorizzare la figura del Delegado del Gobierno a scapito dei Governatori provinciali, in Italia si è registrata una dinamica antitetica, in quanto la revisione costituzionale ha eliminato la figura del Commissario del Governo equiparando, relativamente a questo profilo, il sistema regionale a quello degli enti locali territoriali.
A conclusione di queste brevi considerazioni è possibile, al momento, sottolineare come la “parabola” involutiva che ha contrassegnato il nostro regionalismo non abbia saputo valorizzare la “carica di rottura” (rispetto alla storia costituzionale italiana) espressa dalla scelta costituente di introdurre una forma di regionalismo speciale; mentre si è progressivamente affermata una “narrazione” volta a depotenziare le ragioni che avevano giustificato tale scelta.
Al punto che ancora recentemente, nel corso di audizioni parlamentari sul tema alcuni “esperti” hanno auspicato un ripensamento circa “la differenziazione tra Regioni ordinarie e Regioni ad autonomia speciale (a parte la tutela speciale per il Trentino Alto Adige), alla luce del fatto che sono probabilmente da ritenersi superate le stesse ragioni che portarono alla loro istituzione, ovvero fattori storici o identitari”; così come si è proposto di favorire un processo di riduzione delle diversità ingiustificate”.
Riprendendo il titolo – ma non il significato– di una canzone di De André -“in direzione ostinata e contraria”- il percorso di “rimozione” (ostinata e contraria) del significato delle specialità regionale ha alimentato un filone di confuso regionalismo di tipo asimmetrico che si muove nella direzione opposta del pensiero federale o del regionalismo speciale.
Se quest’ultimo si fonda sul riconoscimento di “solide identità collettive, di cui costituiscono la proiezione istituzionali”, sul riconoscimento della storia e della cultura di alcuni territori; se il federalismo esprime la volontà dei territori di unirsi, pur senza rinunciare alla propria originaria autonomia; il regionalismo asimmetrico invece non si fonda sulla tradizione storica dei territori, né è animato da una tensione unitaria: considera le materie regionali contenute nell’art.117 Cost. alla stregua di una tabla de quesos ( secondo l’immagine azzeccata dei nostri colleghi spagnoli): cioè la revisione dell’art.116, 3 comma abilita le regioni scegliere da un carrello che contiene diversi tipi di competenze, quelle che ritengono preferibili. Incrinando così alcuni criteri di base che informano il sistema regionale, come il principio di solidarietà e il senso di appartenenza a una comunità nazionale.